RECENSIONE:
Sin da quando fu annunciato “Jumanji: Benvenuti nella Giungla“, sia pubblico che critica avevano storto il naso, attribuendo alla produzione la stessa “mania del sequel” che sembra aver attanagliato il panorama cinematografico contemporaneo. Tuttavia, nonostante fosse molto più semplice sbagliare che far bene, la pellicola diretta da Jake Kasdan irrompe sul grande schermo accattivandosi la giusta attenzione ed il forte gradimento anche di coloro i quali non avrebbero mai scommesso nulla sulla riuscita di questo progetto.
Partiamo subito col dire che “Benvenuti nella Giungla” non è un remake e, per quanto opinabile possa essere questa dichiarazione, neppure un sequel, il film si dimostra in realtà un vero e proprio omaggio al cult del 1995 con protagonista Robin Williams. Raccogliere il fardello lasciato dall’ormai leggendario primo racconto, sarebbe stato praticamente impossibile e, evidentemente, lo stesso Kasdan l’aveva compreso prima del tempo.
Perché sì, il gioco è lo stesso ma in una versione del tutto nuova, come si fosse modernizzato e adattato a quello che è lo standard di vita attuale. Le differenze cascate a volte in delle vere e proprie contraddizioni con il primo iconico capitolo della saga, sembrano evidenti, tuttavia risultano davvero marginali in confronto alla maestria intrattenitiva per la quale dobbiamo sì ringraziare il regista, ma renderne il merito allo strepitoso cast e al mondo che quest’ultimo ha adottato nel gestire un progetto tanto ambizioso. La scelta di mescolare le carte in tavola donando ad ognuno dei nostri protagonisti l’avatar esattamente opposto al proprio modo di essere, è risultata senza dubbio tanto geniale quanto vincente.
E se per la narrazione troviamo disseminate delle inesattezze o degli evidenti buchi di trama, beh, sembrerà strano a dirsi ma poco importa, “Jumanji – Benvenuti nella Giungla” funziona: funziona per il modo semplice che ha di raccontarsi, per il riuscire ad essere tanto emotivo quanto esilarante, funziona perché riesce a non prendersi sul serio e, allo stesso tempo, risvegliare in noi quel bambino sopito che, nonostante fossero ormai passati ben ventitré anni, non ha mai smesso di domandarsi cosa Alan Parrish possa aver vissuto in Jumanji nell’attesa che un cinque o un otto comparissero.